venerdì 31 ottobre 2008

ni c’thia’en

(roma)

sto molto meglio. stamattina ho avuto solo un leggerissimo attacco di tosse: il mio polmone destro è stato recuperato allo svincolo roma-nord dell’autostrada; l’hanno bloccato mentre cercava di scavalcare la fila al casello, provocando le proteste dei cittadini ligi (che ligio faccia rima con grigio è solo una coincidenza, vero?), altrimenti a quest’ora era già a bologna. sto cercando in tutti i modi di trasferirmi nella tua città, pennuta. anche un pezzo per volta.
però mi annoio a stare male. io e il bastone della pioggia stiamo imparando a memoria interi archivi di blog, e l’albero di natale nano ci interroga. per fortuna c’è l’elefante viola che suggerisce. l’elefante viola era da un po’ che non passava da queste parti. c’è chi sostiene che il suo ritorno sia legato alle strane sostanze da cui sono composte le mie medicine per la bronchite. il che è chiaramente un’assurdità, l’elefante viola esiste di suo. sarebbe come dire che in realtà la poltrona verde e il cuscino del divano e la cyclettattaccapanni non parlano davvero, ma sono solo io che li sento. non scherziamo. li sentono anche il bastone della pioggia e l’albero di natale nano, voglio dire, e loro stanno molto meglio di me.
poi volevo chiedere se potete trovarmi un lavoro a bologna, per favore. anche a milano. cioè, volendo pure a roma, ma qui dovete essere bravi a trovare qualcuno a cui io non abbia già spedito un cv. e che non l’abbia già usato per scriverci dietro la lista della spesa.
dieci giorni fa giravo per bologna, cercando un angolo in centro in cui la temperatura fosse adatta a gente nata a roma e con tre quarti di sangue meridionale. a piazza maggiore, mentre me ne stavo beata a congelarmi su un gradino, arriva un tossico in pieno nirvana, che voleva chiacchierare. ma non siamo riusciti a chiacchierare bene perché lui a un certo punto ha detto che io dico cose senza senso. lui. a me.
il problema è che ha ragione lui. io dico cose senza senso. le scrivo anche. e le faccio pure, giusto per non farsi mancare niente. ma al livello che in una conversazione tra me e uno fattissimo, quello fattissimo sta lì a rinfacciarmi che manco di logica. che è fantastico. davvero.
devo riprendere il corso per diventare vulcaniani, sì.
(oggi è una giornata che una si nasconde dietro le parole per abitudine, ma se non fosse così sarebbe che va bene, cioè, è piena di cose che un po’ pesano ma non in modo insopportabile, e che non vanno benissimo ma nemmeno una tragedia, poi, insomma, piena di cose, in realtà una, dai. vabbè, più di una, ma oggi stiamo pensando a quella. ci scriveremo su un racconto, che è l’unico modo che abbiamo trovato per sopravvivere finora, io e l’elefante viola, e poi basta, va bene in quel modo che si sorride. e non si sorride per l’abitudine a nascondersi, ma perché si sorride. non so spiegarlo, ma va bene, davvero, va bene così).
sì, c’è roba strana in quelle medicine per la tosse.

le orecchie a punta non sono l’unica differenza fra un vulcaniano e un terrestre.
(dr. mccoy)

mercoledì 29 ottobre 2008

sad sick world

(roma)

ieri mi è arrivata una cartolina dalle mie difese immunitarie. stanno passando le vacanze a betelgeuse. dicono che si divertono tanto e che sperano io guarisca presto dall’otite. ho pensato, otite? quale otite? ho la bronchite, mica l’ot... in quel momento il mio orecchio sinistro è imploso.
stamattina sono stata svegliata da un gruppo di immigrati che urlavano per strada. il quartiere-paese è composto da molteplici realtà, apparentemente in contrasto fra loro, ma tutte accomunate dalla volontà di non lasciarmi dormire. però stavo sognando un comizio del compagno yoghi, il segretario locale del partito che usavo votare prima che si smaterializzasse (il partito; il compagno yoghi non riuscirebbe a smaterializzarlo nemmeno la tipa fuori di testa di x-men 3), quindi hanno fatto bene a svegliarmi. non riesco a decidere se la fine della sinistra in italia mi ricorda di più la scena di star trek in cui il teletrasporto si rompe e scotty dice a kirk che, dei due tecnici che stavano teletrasportando, ciò che ne è arrivato non è sopravvissuto a lungo, per fortuna; o la scena della mosca in cui la scimmia viene teletrasportata in versione double-face. soprattutto non capisco perché una morte così statica a me ricordi il teletrasporto.
comunque mi sono stancata di stare a casa malata e sono uscita (malata) (del resto è un triste mondo malato, perché non posso essere triste e malata anch’io? per una volta che mi adeguo, voglio dire). in centro c’era una manifestazione di sveglie che protestavano contro gli immigrati che rubano i posti di lavoro. e i borg, ho pensato, anche i borg. e gli ascensoristi. e il postino (che oltretutto suonando due volte ti sveglia sicuro).
sono andata a parlare con la signorina urp a proposito dei libri che servono alla pennuta per la tesi. all’inizio la signorina urp non li trovava, poi le ho raccontato della pennuta, di certi suoi tratti caratteriali, della storia della vecia. la vecia è stata l’ultima persona che ha fatto seriamente incazzare la pennuta. pare che la settimana scorsa abbiano ritrovato un pezzo di costola. l’hanno messo nella scatoletta insieme al frammento di rotula e a quei due centimetri di cartilagine. a quel punto la signorina urp mi ha dato il triplo dei libri che ci servivano e ha detto di salutarle tanto la pennuta. e che qualsiasi cosa le serva, basta chiedere. possibilmente, tramite interposta persona. le ho detto che le manderemo dei confetti rossi. l’ho lasciata che stava cercando su internet il più vicino centro anti-veleni.
mentre tornavo a casa mi sono distratta e per errore sono passata davanti alla mia banca. è scattato l’allarme e si sono catapultati fuori un branco di feroci manager che si sono schierati davanti al bancomat in tenuta anti-prelievo. sono fuggita.
ora sono un po’ stanca. ma poi passa.

domenica 26 ottobre 2008

androidi ben temperati

(roma)

stamattina hanno citofonato due secondi dopo che mi ero scaraventata giù dal letto (io non mi alzo dal letto, mi ci kamikazemizzo) (che non so che lingua sia). ho risposto e il citofono funzionava e quindi ho immediatamente pensato, borg. che non è un’imprecazione di quando ti citofonano la domenica mattina alle 10 (quella è borgo pio); è una presa di coscienza.
comunque il tipo mi fa, è una cosa privata, e io, guardi c’è l’apposita cassetta per la pubblicità, e lui, riguarda dio, e io, guardi c’è l’apposita cassetta per la pubblicità, e lui, perché sentiamo tutti l’esigenza di rispondere a domande come, se esiste dio e perché ci sono le guerre, e io, guardi c’è l’apposita cassetta per la pubblicità, e lui, la resistenza è inutile, sarete assimilati.
a quel punto è successo che la comunità di microbi borg che ha preso possesso del mio apparato respiratorio si è sentita insultata e ha risposto, tu saresti cosa e vorresti assimilare chi, scusa?, e hanno iniziato a litigare al citofono, i borg dentro e i borg fuori, e io li ho lasciati lì a discutere e ho messo su la mia canzone.

io sono quel tipo insopportabile di persona che quando mi chiedono che musica ascolti rispondo un po’ di tutto. perché è vero. saltello da guccini alle sigle dei cartoni animati al clavicembalo che gli hanno appena fatto la punta a qualsiasi cosa. però, se poi mi chiedessero, sì, ma tu come ti senti, che musica ti senti, che è una domanda che non ti fanno mai, cercano sempre tutti di capire come stai, e nessuno che si faccia venire l’idea di chiederti, che musica ti senti, che allora tutto sarebbe chiaro senza stare lì a impazzire a cercare le parole che tanto quelle giuste non vengono mai per il semplice fatto che non esistono, allora io direi, io sono paranoid android. non il testo; la musica. io mi sento quella musica lì.
a volte mi copre tutta la settimana, che uno magari ha un martedì che corrisponde al punto a due minuti e 42, e un sabato a quattro minuti e 5. a volte dura un giorno, che ti svegli al primo minuto e 13 e a metà pomeriggio sei a cinque minuti e 40. a volte mi sento tutta la canzone in una sola ora, che poi è quando la mia amica w. mi chiede se voglio le goccine, scherzando (credo, scherzando. ma forse no. però no, non le voglio le goccine).
ecco, io mi sento così. ma so che marvin si sentiva peggio.

comunque credo che a quelli alla fine sia venuta la bronchite, mentre io risposte sull’esistenza di dio e delle guerre non ne ho trovate. a parte che continuo a venerare la grande divinità del bradipo, i cui seguaci la domenica mattina non rompono le gonadi a nessuno perché hanno cose più serie da fare. tipo dormire o rileggere la guida o ascoltare quel clavicembalo e chiedersi ma perché invece non mi sento così o semplicemente cercare di non pensare.

(e tu, buh.lagna:
a parte che chinaski lo abbiamo linkato un anno fa, comunque stai barando.
diventare grandi, ci ho pensato su parecchio dall’ultima volta che ne abbiamo parlato, e ho stabilito che è una cosa che non succede. è una leggenda metropolitana.
io col bastone della pioggia più che parlarci gli rispondo. cioè, in genere inizia lui.
appena smetto di sentire ovunque odore di sciroppo e propoli vado a recuperarti i libri.
non devi avere fiducia nell’umanità, pennuta. non esiste nemmeno l’umanità. è una leggenda metropolitana pure quella)

(che musica ti senti?)

anche io sono quasi sempre io, ma non sempre

(buh.lagna)

Sono di pessimo umore ultimamente. non riesco neanche a spiegare. poi però faccio finta di nulla e a volte rido e mi diverto, anche. forse diventare grandi vuol dire anche questo.

poi ho scoperto che paolo nori ha un blog
e non so perché, ma questo mi da fiducia nel genere umano.

ah, chinaski77, sappi che ti abbiamo inserito fra i link di questo pregevolissimo blog. anche se non ci dai per nulla fiducia nel genere umano.
e anche questa è fatta.

take care.

venerdì 24 ottobre 2008

dipende dalla velocità del vento

(roma)

c’è questo filosofo svedese che non mi ricordo come si chiama, che se anche me lo ricordassi non saprei scriverlo, che non sono per niente sicura che sia mai esistito davvero, e che comunque ormai come tutti i nomi svedesi ricorda poltrone strane cucine componibili e cosi per metterci le cose, che forse ha detto: quando l’ape disdegna il fiore, tu, fiore, vola via.

a parte che dipende dalla velocità del vento, come tutto.

il problema del fiore che vola via è, innanzitutto, che lui la frase se la ricordava con una farfalla, non con un’ape. quando il fiore è andato a controllare e ha trovato l’ape ci è rimasto male. perché ci aveva pensato la notte e aveva visualizzato questa farfalla e questo fiore e aveva riflettuto sul fatto che le farfalle assomigliano moltissimo ai fiori e i fiori moltissimo alle farfalle, e se un fiore vola via magari diventa una farfalla. tipo, che le farfalle sono fiori volanti. con l’ape tutto questo gioco non si può fare, che se un fiore assomiglia a un’ape vuol dire che il camioncino del fioraio ha avuto proprio un bruttissimo incidente.
comunque, superato il primo problema da ape, il secondo problema del fiore è che a volte, quando vola via, gli manca la farfalla/ape.
(ora il fiore, che è un fiore problematico, potrebbe riflettere sul fatto che se uno si ricorda una farfalla invece che un’ape è perché spesso non capisce niente delle persone, cioè, delle api, delle farfalle, di tutto quanto, ma il fiore non se la sente di mettersi a riflettere anche su questo, adesso)
(ha mal di testa)
(e comunque le api hanno il loro perché, soprattutto se il fiore ha la bronchite e sono tre giorni che va avanti a miele per farsi passare la tosse)
(sì, è un fiore che tende a divagare)
allora abbiamo questo fiore che, o sta fermo e guarda l’ape disdegnarlo, o vola via ponendosi serie domande sulla direzione e la velocità del vento, sulle api-farfalla, su come tutto sommato non è che stesse meglio, ma si sentisse più a suo agio, più nella sua natura, a non volare via.
però, il filosofo col nome da scarpiera in effetti non ha mica indicato la direzione al fiore, gli ha solo detto di volare. via, sì, ma via è un’indicazione vaga (come anche piazza o vicolo o).
quindi il fiore ora si sta chiedendo se sia possibile semplicemente volare, senza volare via.

martedì 21 ottobre 2008

cronache dalla città-vassoio

(roma)

il bastone della pioggia, l’albero di natale nano ed io abbiamo salutato la pecora e siamo scesi dal monte armadio. mentre ci allontanavamo, la pecora ci ha detto di riflettere sul fatto che, a volte, tendiamo a confondere i monti armadi coi fossati ripostigli. a noi sembra semplice: sui monti ci si arrampica, nei fossati si precipita. volontariamente o no, questo è un altro discorso.
comunque, invece di tornarcene a casa abbiamo deciso di fare il giro di tre regioni in un giorno, usufruendo di regionali, intercity, eurostar e praticamente qualsiasi mezzo su rotaia (se)movente (cioè, ipoteticamente in grado di muoversi; nel caso di certi treni, ipotetica dell’irrealtà).
è stato così che abbiamo scoperto che il tragitto fino alla città-vassoio è bello di una bella bellezza. abbiamo avuto modo di apprezzarlo veramente bene, aiutati dal regionale che, per non farci perdere nessuna sfumatura del paesaggio, in qualche punto che riteneva particolarmente significativo si fermava e ci lasciava lì quella ventina di minuti ad ammirare lo spettacolo fuori dal vagone. o anche dentro il vagone, che abbiamo condiviso con una squadra di tressette impegnata in un’accesa discussione sul liscio e busso, un allenatore che arringava la folla sul modulo 2-3-5, un indiano che ha passato tutto il tempo a chiedere al bastone della pioggia di scrivergli parole complicate in italiano sul cellulare, mami di via col vento e il matto dei regionali, che inspiegabilmente ha subito fatto amicizia con l’albero di natale nano.
nella città-vassoio è stato inciso un pregevole video e sono state scattate delle ottime fotografie della sottoscritta che si esibiva in una delle più spettacolari figure tapine della sua esistenza. l’iniziativa ha riscosso un tale successo che verrà replicata a dicembre a roma e in seguito a torino, sempre che nel frattempo io non emigri su betelgeuse. di tutto ciò che ho detto, e che il mio inconscio ha deciso prontamente di rimuovere per autodifesa, l’unica frase che ricordo è: perché pensiamo di doverci difendere da loro, mentre in realtà sono loro a doversi difendere da noi. loro chi? noi chi? perché? cosa? non lo sapremo mai.
il regionale che abbiamo preso in piena fuga dalla nostra inadeguatezza nei confronti dell’universo, è chiaramente arrivato in ritardo (legge di murphitalia: se un treno può arrivare tardi, lo farà), e l’intercity che doveva portarci a bologna ha ingaggiato una lotta spietata a chi arrivava dopo con un altro intercity; alla fine ha fatto il suo ingresso nella stazione nel bel mezzo del nulla in cui l’aspettavamo da assoluto trionfatore, tra gli applausi della folla entusiasta. un successo di pubblico straordinario: come sempre solo posti in piedi.
a bologna siamo stati raccattati dal pulch e portati in un luogo amico dove la pennuta mi ha dato dell’uva, alla faccia della signora del post sotto. il giorno dopo, per coerenza nei confronti del mio essere del tutto cretina, ho imbucato delle lettere di presentazione con cv scordandomi di affrancarle. tipo, che sappiano da subito con chi hanno a che fare. sono un genio, lo so.
poi, dopo essermi fatta perdonare da bologna e averle dichiarato di nuovo eterno amore, ho fatto un biglietto per roma e non per milano, perché per una volta l’idea è cercare di stare bene finché si può.

venerdì 17 ottobre 2008

la volpe, l'isbn e l'uva

(roma, discount del quartiere-paese)

reparto frutta e verdura. una signora si lamenta. cioè, rompe. così, a vuoto. si gira, mi vede e decide di lamentarsi con me. ecco, io già sono naturalmente portata ad interagire col mio prossimo con felicità e spensieratezza, figuriamoci quando il mio prossimo è una signora che si lamenta della qualità della vita, dell’universo, di tutto quanto e, nello specifico del tutto quanto, dell’uva. che lei si sta scegliendo acino per acino, e che quindi alla fine lascerà devastata e inavvicinabile per chiunque altro.
sul sito di isbn edizioni, nel manifesto, massimo coppola scrive, è stanlio chi e solo chi si batte per affermare il seguente principio: se ho una fetta di torta e due affamati, uno taglia e l'altro sceglie quale fetta mangiare.
coppola è quello che per anni ogni notte a mezzanotte mi ha ripetuto che un altro mondo era possibile, che io comunque siccome lo amo di quell’amore puro incontaminato e spensieratamente menefreghista con cui si amano solo le persone che non esistono, quasi ci credevo.
e però, per quanto più giovane, io sono assai più disillusa cinica e pessimista. esisterà pure la possibilità di un altro mondo in cui la signora non si frega tutta l’uva buona e non rompe. in questo, il massimo che si possa ottenere è che o rompe ma non devasta l’uva, o devasta l’uva ma non rompe.
e invece puntualmente rompe e devasta l’uva.

(stamattina mi sono svegliata incazzata e ho scritto un lunghissimo post su gomorra bolzaneto la guerra il razzismo gli italiani brava gente il papa certi governi e chi li vota; non l'ho pubblicato per due motivi. il primo è che era pieno di scemenze; il secondo è che cazzo ne parliamo a fare, finché la gente fa così con l'uva. che sembra che non c'entri niente, ma devi partire dall'uva, se non risolvi il problema dall'uva non risolvi niente)
(mi girano tantissimo che sono rimasta senza uva)
(sì, l'ho cazziata la signora, certo che sì)
(sì, mi ha detto vaffanculo)
(pazienza)
(un altro mondo è possibile)

mercoledì 15 ottobre 2008

sono riusciti a cambiarmi? ci sono riusciti? lo sai?

(roma)

poi sono andata a letto e mi sono tirata la coperta sopra il mento e ho pensato a un tuo vecchio post, in cui mi immaginavi sul tuo divano che urlavo, “non mi avrete mai”.
come volete voi.

si fumava insieme. mi spiegava perché non vuole più partire, mi diceva, non sono più così ambiziosa, non sono più così interessata, non sono più così decisa.
io la ascoltavo e pensavo, ecco. non sono più.
non sono più così arrabbiata, non sono più così triste, non sono più così sicura, non sono più così felice, non sono più così, non sono più, non sono.
non.

non è nemmeno una riflessione sulla vita l’universo e tutto quanto, questa. mi stavo solo chiedendo se abbia senso provare a scrivere ancora o se forse dovrei lasciar perdere, che tanto non ci riesco più. io mi rileggo e non c’è niente.
ed è ovvio che sia così.

lunedì 13 ottobre 2008

trompe-l'oeil

(roma)

ogni volta alzi lo sguardo. è il tuo modo di salutarla. anche se non sei sicura che esista davvero. ci pensi spesso, che in realtà sia solo dipinta sul vetro. è immutabile. sono passati quattro anni, da quando fai questa strada. in quattro anni non ha mai cambiato posizione, acconciatura, aspetto. in quattro anni non ha mai cambiato espressione.
non ti ricordi quando l’hai vista per la prima volta. a te piace guardare le case. a te piace guardare. di giorno le finestre ti oppongono solo schermate scure che danno sul vuoto. puoi ascoltare discorsi e cadenze che a volte sanno di passato, ma non ti è concesso vedere. di sera ci sono luci che ti ricordano il natale in qualsiasi stagione. la finestra illuminata di una cucina ti ha sempre dato un’idea di famiglia che non sai.
hai guardato le stagioni passare come nel piano-sequenza di un film romantico; hai mandato avanti veloce le foglie ingiallite e il nevischio e il fiato che si fa nuvola fredda e i primi germogli e i raggi che sanno di calore incerto e l’afa e l’asfalto stremato e il bagliore.
per quattro volte.
è sempre stata lì. dipinta sul vetro.
a volte, quando piove, ti siedi con le gambe incrociate davanti alla finestra della cucina. tieni la luce spenta. da te non è mai natale. ti chiedi se qualcuno, passando, possa alzare lo sguardo e pensarti dipinta sul niente. ma le persone guardano sempre davanti, camminano veloci, non si distraggono mai.
sei uscita di mattina presto, di pomeriggio, di sera. hai camminato sotto l’acqua senza ombrello e hai sbuffato sotto il sole. hai avuto fretta e non hai avuto meta. sei stata sola e hai sorriso a qualcuno al tuo fianco.
e ogni volta vi siete guardate.
ti piace pensare che conosca la tua vita meglio di chiunque altro. ti piace pensare che ricordi. che nella memoria le capiti di sfogliare i tuoi giorni. che sovrapponga le giacche e i tagli di capelli e gli amici e i sorrisi e l’incertezza dei passi.
è ferma come il muro su cui è dipinta. mentre tu passi come le foglie.

domenica 12 ottobre 2008

una notte sul monte armadio

(roma)

il bastone della pioggia, l’albero di natale nano ed io abbiamo preparato gli zaini e siamo andati in escursione sul monte armadio, per perlustrare le famose e accoglienti caverne (*) locali. voleva venire anche la poltrona verde, ma da quando ha perso i feltrini sotto le zampette non si sposta più di tanto, per evitare di disturbare gli inquilini del piano di sotto. sono bravissime persone, ma cerchiamo di non innervosirli; non ci convince molto che abbiano le inferriate fatte di ossa umane (e anche quello strano posacenere sul tavolo del terrazzo, bianco, cavo e con i denti, ci lascia un po’ perplessi).
comunque, dopo una scarpinata di ore, abbiamo trovato una grotta (*) che aveva l’aria di essere accogliente; del resto diluviava e avremmo trovato accogliente anche il forno della casetta di marzapane della strega di hansel e gretel. siamo entrati e dopo pochi metri abbiamo trovato lei. non la strega di hansel e gretel.
la pecora.
stavolta l’ho fregata sul tempo e le ho detto: beh?
ha sbadigliato. ogni tanto ho l’impressione che cerchi di innervosirmi.
le ho chiesto, che ci fai tu qua. mi ha risposto, che ci fai tu, qua. ho detto, perlustro. ha replicato, bah.
poi ha dispiegato le sue grandi ali nere e quando la sua ombra è scesa sul villaggio alle pendici del monte, tutta una serie di scheletri, no, niente, quello era un altro monte.
poi ha sbadigliato di nuovo e mi ha chiesto se c’è una qualche motivazione logica che mi porti a isolarmi in una caverna in cima a un monte ogni volta che non sto bene, a diffondere missive in cui avviso che parto per un’altra galassia e non so quando torno, a spegnere il cellulare e ignorare persino il citofono.
le ho fatto presente che il citofono si è rotto da solo, il che è una fortuna, visto che in genere viene usato soprattutto dai droni del parroco borg che ormai cercano di assimilare qualsiasi cosa che respiri, rantoli o dia l’idea di averlo fatto in un più o meno recente passato (li ho visti lasciare volantini al posacenere strano di quelli del piano di sotto, la settimana scorsa, ribadendogli, ogni resistenza è inutile. che poi lui in realtà non stava cercando di resistere affatto).
e poi le ho detto che i gatti vanno a morire negli armadi.
mi ha chiesto se io abitualmente miagolo o faccio le fusa.
le ho spiegato che, no, ma se è per questo non miagola nemmeno gatto; quanto alle fusa, dipende se ho la bronchite.
mi ha chiesto se io sono in grado di fare salti di un metro e mezzo solo per dare la caccia a qualche insetto.
le ho spiegato che sono allergica a qualsiasi tipo di insetto esistente, esistito o in via di esistenza, e che la reazione più calma e ponderata che ho quando ne vedo uno è fuggire urlando, barricarmi in un’altra stanza e bloccare la serratura con scatole di cortisone.
mi ha detto, appunto. le ho detto, appunto.
mi ha ribadito che secondo lei sono stupida. le ho ribadito che sono d’accordo.
poi abbiamo giocato a carte tutta la notte e ha vinto l’albero di natale nano perché, lo sanno tutti, bara.

(*) volevo dire che io l’ho cercata, sul dizionario, la differenza fra grotta e caverna, ma se c’era, non sono stati chiari, ecco.

giovedì 9 ottobre 2008

celeste

(roma)

hai aspettato qualche giorno raccontandoti di rispetto e star bene e.
hai aspettato qualche giorno perché non volevi andarci e basta, perché stai stabilendo il record di non vitalità, perché ti hanno appena detto che tu forse no, perché ti guardavi allo specchio e ti chiedevi, dove vuoi andare.
hai aspettato qualche giorno pensando che fare finta di niente fosse la soluzione migliore, finché hanno smesso di fare finta di niente dall’altra parte. allora sei andata davanti allo specchio, hai guardato, hai sospirato. hai preso tutti i trucchi che hai, e hai capito perché si chiamano trucchi. hai dato un colore alla pelle e uno sguardo agli occhi e un sorriso alle labbra. sei uscita.
sei entrata. vi conoscete da tantissimo tempo, a volte pensi, da troppo. vi leggete. lei legge la maschera con cui vai in giro. tu leggi il movimento millimetrico delle sue sopracciglia. è un leggere rassicurante, ti dice che comunque sia andata, comunque vada, tutto ha avuto un senso.
lui è molto piccolo e buffo e stavolta non ti sei commossa.
sei andata via. davanti a te c’era l’ombra lunga del tardo pomeriggio, era fortissima e nera, eravate saldamente attaccate. hai ceduto solo per qualche secondo, il tempo di ricordarti che hai deciso di non farlo più. hai pensato a quanto ti piace camminare, a come è bella la luce a quell’ora e com’è bella l’ombra, hai guardato alla tua sinistra il palazzo in cui hai vissuto una giornata particolare, hai sorriso andando oltre il disegno a matita.

mercoledì 8 ottobre 2008

the day after

(roma)

ho passato buona parte della nottata a combattere contro la sindrome da decollo che ha colpito la mia camera da letto. appena mi sono schiantata sulle lenzuola, il letto ha iniziato a girare vorticosamente su se stesso; sono riuscita a fermarlo, ottenendo però che iniziassero a girare vorticosamente, in senso contrario, le pareti. ora ho un leggerissimo mal di testa e una certa nausea. però sono riuscita a far sì che il palazzo non decollasse roteando alle due di notte, e quindi sono fiera di me.
stamattina sono strisciata in cucina e la sedia mi ha guardato con compassione; pare che io non abbia un bell’aspetto. e questo è niente, dovrebbe vedere l’espressione che ha messo su il mio fegato. probabilmente nei prossimi giorni in effetti la vedrà, visto che sono ripiombata nel girone dantesco di quelli che hanno i medici coscienziosi.
comunque. in paris trance di dyer c’è questo dialogo qui.
- Oh, sì, io odio i bronci. La vita è troppo lunga per certe cose.
- Troppo corta, vorrai dire.
- No, troppo lunga.

ecco, è tutto quello che ho da dire su questa faccenda. almeno finché non esco e compro qualcosa per il mal di testa.

martedì 7 ottobre 2008

Musa di nessuno

(quando manca vuol dire che è bologna)

Come spesso, quasi sempre, mi sembra tutto sbagliato.
Solo che era un po' che mi sembrava di no.
Solo che si sta bene quando i problemi, gli ostacoli, le prese di coscienza dolorose sono seppellite sotto una soffice coltre di cose da fare, telefonate, scadenze.
Solo che spesso, sempre più spesso, si confonde la vita col lavoro, e viceversa.
Solo che io sarei un po' stanca.
Solo che non c'é testa, tempo, risorse mentali, fisiche e volontà per fare altro.
Solo che l'altro va fatto.
Solo che oltre al fatto che le cose vanno fatte perché si deve, ci sarebbe anche che le cose vanno fatte perché si vuole.
Ma questo non è mai stato il mio forte.

E poi volevo dire che sto leggendo.
E che ho anche sentito un pezzo degli Afterhours.
Forse ho ancora qualche speranza come essere umano.
O forse no.