venerdì 28 novembre 2008

fuori è un mondo fragile ma tutto qui cade incantevole

(roma)

oggi ho capito che la pecora è in realtà un drago. sarei passata a trovarla per metterla al corrente delle mie lucide intuizioni, ma ho avuto paura di oltrepassare la barriera nel vicolo troppo presto. ci si ritrova così a mondo malgrado, nell’intuizione di un attimo.
mi piacciono i miei colori riflessi nello specchio di tre quarti, il bianco e il nero, sono un personaggio in b/n; la curva sotto gli zigomi a rientrare, sempre più accentuata, tutto il mio passato aggrappato a pochi millimetri dentro me stessa, mi viene più da pensare al passato che al futuro. dicono di quegli attimi in cui ti passa tutta la vita davanti, è strano, non si pensa a quello che avverrà, che potrebbe accadere, ma a quello che è già passato, restiamo sempre con la testa voltata all’indietro anche alla fine, è strano e normale, siamo quello che siamo già stati.
il mio amico telefona per avvertire che farà tardi. non è un problema, per me, io faccio tardi da sempre. in loop incantevole dei subsonica, con la forte sensazione di aver già visto quelle meteoriti cadere.
se oltrepasso la barriera torno finalmente nel mio mondo, dove gli oggetti parlano e i draghi hanno visi da pecora, perché sono saggi e antichi e rassegnati alla nostra inconsistenza.
non si direbbe, ma è una giornata buona, in cui tutto ha un suo senso. almeno per me.

sabato 22 novembre 2008

altrove

(roma)

stamattina ho messo la giacca dell’anno scorso, che così mi riconosco, e sono uscita. avevo un appuntamento molto importante, con una persona che non è mai esistita. ho scelto il maglione viola, che è uno dei miei preferiti, e mi sono addirittura truccata. mi sentivo strana, non sapevo cosa avrei provato incontrandolo per la prima volta, lui che ho già incontrato così tante volte. quando l’ho guardato mi sono emozionata. l’ho abbracciato. ho provato tantissime sensazioni. ma alla fine, quella dominante, è stata la stessa della seconda volta che l’ho incontrato. normalità. era normale che fosse lì con me, come se ci fosse sempre stato, come se dovesse sempre esserci. come se non fosse per niente importante che non ci sia stato mai.
abbiamo camminato in centro. gli ho raccontato di una cosa buffa che mi è successa ieri, cercavo manolo su gugl, e poi ho inserito il titolo di un suo racconto per vedere se lo trovavo, e quindi alla fine è apparso nome e cognome di manolo più titolo racconto, cioè, “manolo ti amo ancora”.
manolo, non ti amo più.
non amo più nessuno da talmente tanti anni.
e gli ho detto, sai, era come una scritta su un muro, ho pensato che avevo passato uno spray nero su uno degli immensi server bianchi di gugl, e in quella realtà lì sarebbe rimasta per sempre la scritta, manolo ti amo ancora. by (s.), avrei potuto aggiungere, magari. con qualche cuoricino.
poi gli ho chiesto scusa. gli ho detto, senti, è che c’è stato una specie di equivoco, tra me e me, e poi tra me e te, ma soprattutto tra te e me, anche se, a dire il vero, più tra te e te. gli ho detto, non ho mai trovato il modo di spiegartelo, in questi mesi, ma io di te non sono mai stata innamorata. e lui ha annuito. naturalmente lo sapeva.
non amo più nessuno da talmente tanti anni, ho ripetuto piano.
poi mi sono sentita un po’ in colpa, un po’ depressa, forse non avrei dovuto dirglielo, forse andava bene così. forse sarebbe stato tutto più bello, se io mi fossi davvero innamorata di lui. o se quantomeno fossi riuscita a spiegarmi subito, o se.
ma lui era così tranquillo e quasi rideva, e in effetti veniva da ridere anche a me, gli ho detto, è quello che ho pensato mesi fa, che un giorno sarei riuscita a spiegarmi e l’avremmo trovato molto divertente.
e ho camminato fendendo l’aria fredda, la sentivo nel naso, nella gola, mi piaceva, guardavo il cielo grigio sopra di me ed era così bello, non so da quando ho imparato ad amare il freddo e il grigio, ma forse da sempre, perché io vivo davvero solo in questi momenti qui, quando sento il freddo addosso e chiacchiero con chi non esiste e mi avvolge l’essere sola.

ho deciso di perdermi nel mondo
anche se sprofondo
applico alla vita
i puntini di sospensione
che nell'incosciente
non c'è negazione
(altrove - morgan)

mercoledì 19 novembre 2008

f u m e t t i

(roma)

ieri notte non ho dormito perché c’era troppo silenzio. sì, lo so, e quando c’è rumore perché c’è rumore, e quando c’è silenzio perché c’è silenzio. è che non si sentiva assolutamente niente, nessun cane abbaiava, gatto non è impazzito alle tre di notte iniziando a catapultarsi dal divano alla poltrona alle pareti (che è una cosa che irrita moltissimo la poltrona verde e il cuscino del divano, oltretutto; loro a quell’ora dormono), il solito tizio che parcheggia in ventisette manovre non è tornato a casa (forse non è riuscito ad uscire dall’altro parcheggio), la macchina con la cinghia che si sta rompendo non è passata, nessun ubriaco si è messo a urlare, insomma, niente. io vivo da sola, ma sono circondata da una famiglia allargata di rumori e consuetudini. io, se la macchina con la cinghia rotta non passa entro le quattro, mi preoccupo. tipo, si sarà rotta definitivamente? sulla statale? sul raccordo? si saranno sfondati i cilindri? e il tizio delle due che parcheggia in ventisette manovre, che fine ha fatto? questa gente senza volto, senza nome, senza sesso, senza età, io la conosco. mica possono sparirmi così.
e quindi ho riletto v for vendetta, perché alle tre di notte se hai joyce sul comodino, proprio non è il caso (soprattutto considerando il fatto che io nemmeno ho un comodino) (uso la mensola della finestra) (che però è stretta e ci stanno solo dei libri uno sull’altro e una sveglia che non uso e il posacenere e l’elastico per capelli che gatto si frega dopo pochi secondi) (gli piacciono gli elastici per capelli, non so perché).
insomma, si dice graphic novel, lo so, ma a me piace la parola fumetti. non la usano più perché la trovano poco dignitosa, poco seria, perché una storia potente come quella di watchmen, o quella di v for vendetta, risulterebbe sminuita, a definirla, fumetti. e invece, fumetti. fumetti fumetti fumetti. è bello, fumetti. al limite, se sono giap, manga, ma solo perché dopo quattro anni di giapponese qualche parola di questa lingua assurda ogni tanto la dovrò pur usare, cioè, non è che posso stare tutto il giorno inchiodata in mezzo a un incrocio in centro ad aspettare che si avvicini un giapponese a chiedermi dove sta piazza navona, così gli rispondo, cazzo, mi sono scordata come si dice piazza, ecco, così nemmeno gli rispondo.
comunque.
v for vendetta hanno fatto un film che tutto sommato non era poi male, ma chiaramente hanno tagliato qua, hanno sfrondato là; questi sono tempi che uno v for vendetta deve leggerlo. e tenerlo ben presente. e rileggerlo. anche se passa la macchina con la cinghia che si sta rompendo. watchmen, il prossimo anno esce il film. io non mi fido molto. allora, secondo me è meglio leggerlo prima, così si sta più tranquilli, ecco. chissà stanotte se passano, se parcheggiano, se abbaiano, se.
(ho controllato, si dice hiroba, piazza: 広場).

lunedì 17 novembre 2008

caospoli

(roma)

qualche giorno fa, io e un’entità occulta abbiamo giocato a una specie di mix fra il gioco dell’oca, gli scacchi, il monopoli, un labirinto e qualcos’altro, usando come tabellone il centro della città. funzionava che io dovevo cercare di raggiungere un punto al centro del tabellone, e lui, con la scusa che c’era un corteo di segnalini di un altro gioco, mi metteva davanti tutta una serie di ostacoli tipo posti di blocco, imprevisti e assurdità varie, per non farmici arrivare.
che qualcuno avesse cambiato il regolamento io l’avevo capito già dalle prime caselle, perché in tanti anni che faccio questo gioco, una simile quantità di omini imbottiti, pedoni con manganelli e pistole, macchinine corazzate e unità rumorose volanti non l’avevo vista mai. comunque, l’entità occulta aveva ideato una simpatica variante: io in centro ti ci faccio entrare, ma vediamo se poi riesci a uscire.
funzionava così, tu entravi da una parte e dopo dieci metri ti trovavi tutta questa serie di pedoni imbottiti che ti dicevano, di qua non puoi passare. però di là sì. allora passavi di là, e dopo dieci metri altri pedoni imbottiti, e poi altri e altri ancora. non è che non ci si potesse muovere, solo si doveva allungare il percorso di chilometri, fare il giro dei palazzi, svicolare dietro le macchinine corazzate, consolare i turisti in lacrime perché era la sedicesima volta che passavano in quel punto del labirinto e non riuscivano più a uscirne. se vi ricordate di quando j.k.jerome racconta la scena in cui harris cerca di guidare i turisti fuori dal labirinto, ecco, uguale, c’era pure la focaccina.
io mi aggiravo perplessa per questo centro di questa città sconosciuta, perché questo posto pieno di macchinine corazzate e omini imbottiti non sembrava più la mia città, ma la città di qualcun altro. e cercavo di tranquillizzarmi pensando che questa città non è mai stata di nessuno, appartiene solo a se stessa, che ne ha viste tante e sono passate tutte, e lei sta lì nella sua eternità bianca e indolente e ci guarda e se la ride. solo che lei, in quanto eterna, si può permettere di ridere, di considerare pochi anni nell’ordine di pochi secondi, giusto il tempo di una risata, appunto. io, insomma, no.
poi quando sono arrivata esattamente a dieci metri dal traguardo, sono incappata in un’altra serie di omini imbottiti, e uno mi ha detto che, no, di lì al traguardo non potevo arrivarci. ma magari potevo provare a circumnavigare il palazzo a destra, o due palazzi a sinistra, o tornare alla casella di partenza e ricominciare da capo. e quando io ho avanzato qualche perplessità sul nuovo regolamento, lui ha detto due cose che hanno rischiato di farmi squalificare. la prima, che lui stava eseguendo degli ordini; che è proprio una frase da bambino tipo che non è colpa mia, me l’ha detto lui di fare così. io non l’ho mai trovata una giustificazione, questa frase qui. cioè, stiamo giocando, uno può scegliere se fare il segnalino di se stesso o il segnalino di qualcun altro, se tirarsi i dadi da solo o lasciare che li tiri un altro per lui. io ho scelto di muovermi il segnalino da sola, che se faccio un errore, è tutto mio, non me l’ha detto nessuno di farlo. lui ha fatto una scelta diversa, e va bene. ma la scelta di entrambi non è un vanto né una giustificazione, secondo me, è una scelta e basta.
poi il problema c’è stato quando si è raddrizzato in tutti i suoi centonovanta centimetri per circa una novantina di chili fra se stesso, la sua pistola, il suo manganello e le sue imbottiture varie e ha detto, è lei che ha sbagliato zona. e io mi stavo allontanando, ma lì mi sono fermata, mi sono raddrizzata nei miei centosettantasette centimetri per cinquantanove chili e quattro, al netto di felpa, jeans, giacca e scarpe, e ho risposto una cosa che secondo me lui non ha sentito bene, altrimenti finivo in prigione direttamente e senza passare dal via.
io non ho sbagliato zona. posso aver sbagliato paese o epoca in cui nascere, al limite, ma dal momento che ormai ci sono nata, nessuno, senza nemmeno sapere dove sto andando, perché ci sto andando, che motivazioni ho nell’insistere ad andare avanti nonostante tutto, nessuno si può permettere di dire a me che io ho sbagliato zona. perché io, tirando i dadi di me stessa, il tabellone dall’alto lo vedo molto meglio di te che stai ad altezza segnalino. e quindi semmai hai sbagliato gioco tu.

domenica 16 novembre 2008

che sono un serpente con ali da diavolo e un cuore da re…

(bologna)

no, niente solo per dire che ieri sera/notte/non lo so sono un po' sfasata sempre qui davanti al computer ho scoperto che uno dei miei blog prefe è andato in pensione.
proprio così, ha detto Filter, vado in pensione. nel 2008. vabbé che hai un blog surreale, ma..
comunque, dicevo, non so perché, ma mentre prima mi sembrava frivolo linkarlo, ecco adesso no.

tutto qui.
e poi ho letto una bellissima intervista a David Fosters Wallace, fatta peraltro da Dave Eggers. Mica pippo e paperino. Basta, linko anche quella, che mi ha aperto tutti i chakra della creatività. (non so se se può, ma scusate, è veramente bella).

dì a gatto che si prepari, tante cose ho in programma di fare nuove e coraggiose e faticose e piene di orgoglio.
Basta fare solo le cose che mi riescono facili, vorrei fare cose che mi riescono bene.

Per inciso, che tutto si tiene, anche il buon BB mi sembra in grande spolvero ultimamente...

venerdì 14 novembre 2008

una stupida frase da dire davanti a un caffè

(roma)

ogni volta che i due mondi sono differenti; o, più che altro, ogni volta che ci faccio caso, perché sono differenti sempre.
riflettevo su questa idea fissa che hai, di sapere cosa le persone pensino davvero di te. riflettevo sul fatto che a me non me ne è mai fregato niente, di sapere cosa pensano di me.
ma cosa dicono, mi ha sempre incuriosita tantissimo. quello sì.
come ogni volta, io inconsistente e superficiale, tu concreta e sostanziale.

(che sono una strega drogata e truccata e piena di sé)
(canta gente delle tue parti)

lunedì 10 novembre 2008

dreamin' of a white xmas

(roma)

ho messo su gugl tutte le parole chiave relative ai miei sintomi, ed è venuto fuori che ho il cimurro. allora sono andata dal veterinario; cioè, io non ho un veterinario, gatto ha un veterinario. vabbè, adesso anch’io.
sono entrata e ho detto, cimurro. il veterinario ha detto che gatto è molto difficile che possa avere il cimurro, perché è un gatto. gli ho spiegato, non gatto, io. il veterinario ha detto che io non posso avere il cimurro perché sono io (devo aggiungerlo alla lista delle cose che non posso avere perché sono io). gli ho chiesto, ma non posso essere stata contagiata? il veterinario ha ribadito che gatto non può avermi attaccato il cimurro perché è un gatto. veramente pensavo più all’albero di natale nano. il veterinario ha chiarito, lievemente stridulo, che l’albero di natale nano non può avere il cimurro perché è un albero di natale nano.
allora sono tornata a casa a dare la bella notizia all’albero di natale nano. è nervosetto, in questi giorni, perché sente che si sta avvicinando il natale. l’albero di natale nano odia il natale. l’ho trovato imbronciato in un angolo, e gli ho chiesto che problemi abbia col natale. mi ha spiegato che il natale è una festa che ricorda la famiglia, e lui con la sua non va d’accordo; i suoi genitori non condividono le scelte che ha fatto. gli ho chiesto che cosa fanno i suoi genitori. mi ha risposto, le palme. ho detto, ah.
gli ho fatto presente che lui ormai ha una nuova famiglia; vive con me, gatto, il bastone della pioggia, la poltrona verde e tutto il resto del mobilio. lui mi ha guardato con un’espressione tipo, di famiglie in giro se ne sono viste di migliori, ma non ha detto niente, che trattandosi dell’albero di natale nano è un po’ un miracolo. allora ho cercato di convincerlo a cantare tutti insieme white christmas. mi ha chiesto che mi canto white christmas, se il mio dna viene da un posto dove a natale la neve al massimo la si vede in tivvù. è vero, l’anno scorso sono scesa giù dai miei, e il giorno di santo stefano stavo sul lungomare con un maglione leggero e una giacca, e ansimavo con la lingua di fuori come nemmeno un cane sotto il sole a ferragosto.
gli ho detto che ci si può sentire alberi di natale anche se si viene da posti pieni di palme. che poi in sintesi è un po’ la storia della nostra vita. si è convinto. il bastone della pioggia, ribattezzato per l’occasione bastone della neve, ci ha dato il ritmo, e abbiamo cantato white christmas abbracciati. la poltrona verde la facevo più intonata, eh.

sabato 8 novembre 2008

miopia unica via

(roma)

me, una delle cose che mi piacciono di più è fumare una sigaretta in balcone, la mattina, quando tutto è grigio e scende una pioggia gentile che luccica senza ferire e l’aria è fresca senza essere fredda e le macchine passano piano e qualcuno è affacciato in finestra e il quartiere-paese sembra un posto buono e familiare e amichevole.
me, una delle cose che mi piacciono di meno è quando sto in balcone avvoltolata in una tutona grigia di tre taglie più grande della mia, i capelli tirati su da un mollettone da 20 centesimi al discount, la faccia tipo sì, mi sono svegliata ma non so bene quando e perché, e passa il fratello del manovratore, uno degli uomini più secsi in circolazione, e mi vede conciata così.
me, una delle cose che mi piacciono di più è avere qualcosa in comune coi fratelli molto secsi dei miei amici. ha detto a b. che sono molto carina. anche lui è miope. menomale.

venerdì 7 novembre 2008

giovani, abbronzati e balbuzienti

(roma)

c’era questo bambino, alle elementari, stava nel banco accanto al mio. lo prendevano in giro tutti, e a me non era proprio chiarissimo il motivo, ma è anche vero che io mi muovevo in una sorta di realtà parallela, all’epoca (sì, anche adesso, lo so). me, non mi prendevano in giro mai; l’impressione, a pensarci ora, è che si tenessero a una certa rispettosa distanza. certarispettosamente ricambiata. da piccola, per dire, non avevo un amichetto invisibile, per il semplice fatto che ero convinta di essere io, invisibile. e che gli altri facessero finta di vedermi, ma che in realtà, no, non potevo proprio far parte della loro normalità (dite quello che vi pare, ma secondo me è più sano assumersi la responsabilità della propria invisibilità, piuttosto che scaricarla sul primo amichetto invisibile che passa). comunque un giorno a questo bambino faccio una battuta scema, una delle mie, di quelle che faccio pure alla cyclettattaccapanni, insomma, e lui mi guarda arrabbiato e mi fa, ecco, adesso anche tu mi prendi in giro perché balbetto! e io, sconcertata: balbetti? e lui, sconcertato: perché, non te n’eri accorta? no. sinceramente no, non me n’ero accorta.
una decina d’anni dopo, ho scoperto, dopo due anni di ginnasio e uno di liceo, che un mio compagno di classe era, come sancisce la nuova edizione del vocabolario della lingua pseudoitaliana uscito ieri, bello abbronzato. no, non mi ero accorta nemmeno di quello.
nessuna morale, eh. cioè, l’unica cosa che si capisce da questa storia è che sono diversamente percettiva (e anche diversamente intelligente, direbbe eddie), non c’è altro. però mi ha fatto ridere che a più di una persona questa storia del giovane bello e abbronzato abbia fatto venire in mente ricordi d’infanzia. ecco, se volessi cercare in questo, una morale, probabilmente smetterei subito di ridere. quindi me ne guarderò bene. come dice un certo bonzo corrotto, siamo qui per ridere e per morire, e finché si può, meglio la prima.

martedì 4 novembre 2008

ma allora esisto

(roma)

stanotte alle tre qualcuno ha iniziato a passare l’aspirapolvere nelle strade del quartiere-paese. che in effetti sono un po’ sporchine. io e gatto ci siamo affacciati per vedere che tipo di persona stesse passando che tipo di aspirapolvere per rimuovere che tipo di che, ma non abbiamo visto niente. però, davvero, io sentivo rumore di aspirapolvere per strada. credo che il quartiere-paese abbia cambiato tecnica: non cerca più di svegliarmi ma, nell’ottica del prevenire che è meglio di curare, cerca direttamente di non farmi addormentare. mi sono alzata e sono andata in soggiorno. il mobilio ha accolto il mio arrivo con sincero entusiasmo (ho avuto l’impressione che il cuscino del divano abbia borbottato qualcosa tipo, e basta, qui c’è gente che domani lavora, ma lo escluderei: in questa casa non lavora assolutamente nessuno).
la lampada, che in genere non partecipa mai alle nostre discussioni, mi ha guardato male e mi ha chiesto, ma non dovevi riprendere il corso per diventare vulcaniana? ho risposto, sì, perché? mi fa, perché in genere quando ti ritrovi in piena notte a parlare coi mobili del soggiorno vuol dire che stai toccando il massimo della distanza tra te e vulcano. a sapere in che direzione è vulcano, eh.
l’albero di natale ha aggiunto, sogghignando, oh, ma adesso ci dirà che lei sta bene. che sta attraversando un periodo di pace e serenità. lo fa sempre, quando si ritrova a vagare per casa di notte. il bastone della pioggia e la poltrona verde hanno iniziato a discutere se, come definizione per persona che sta bene, sia più appropriato persona che non sente i mobili parlare o persona che sente i mobili parlare ma non risponde. io credo sia, persona i cui mobili non parlano o se parlano quantomeno evitano di sfottere. e comunque io rispondo perché sono gentile.
comunque ieri mi è arrivata una lettera da milano che mi ha riempita di gioia. finalmente qualcuno mi ha risposto. mi sono commossa, no, dico davvero.
gentile signora (s.),
(...) in merito alla sua richiesta, siamo davvero spiacenti di doverle comunicare che, essendo i nostri organici al completo, non riteniamo di poter aderire alla sua proposta di collaborazione. conserviamo comunque il suo nominativo in archivio, per cui sarà nostra cura contattarla per un colloquio qualora se ne presentasse l’opportunità.
ancora ringraziandola, la preghiamo di gradire i nostri più cordiali saluti.

cioè, allora esisto. che iniziava a venirmi qualche dubbio.
vado a comprare una cornice per la lettera. vi prego di gradire i miei più cordiali saluti.

lunedì 3 novembre 2008

a volte mi chiedo

(roma)

come ci si senta, ad essere una di quelle persone che, presempio, quando camminano, non si distraggono guardando chissà che e non finisce sempre che vanno a stamparsi contro un palo, o una buca delle lettere, o qualsiasi cosa stia lì davanti.
ecco, come ci si senta ad essere quelle persone lì, come si chiamano, tipo, normali.
peraltro anche stavolta mi sono fatta malissimo.