lunedì 23 febbraio 2009

ancora qui a domandarsi e a far finta di niente

(roma)

stanotte ho dormito come snoopy quando cena con tre pizze e poi passa la notte saltellando sul tetto della cuccia. non ho cenato con tre pizze e non sono un bracchetto e non dormo sopra una cuccia, ma saltello benino anch’io.
stamattina sono uscita, prima mi sono diretta verso lo studio del veterinario per dirgli che credo mi sia tornato il cimurro, ma mi sono resa conto che mi avrebbe risposto che non sono un bracchetto (e che nemmeno l’albero di natale nano lo è, come non è una palma, come non è niente di ciò che avrebbero voluto che fosse, ma non è nemmeno ciò che avrebbe voluto essere lui, se non in piccolo, in idea); quindi ho deviato verso la tana della pecora, ma ho pensato che mi avrebbe guardata con quell’espressione paziente che si riserva agli irrecuperabili idioti; allora mi sono fermata, ho fatto mezzo metro in una direzione, poi in un’altra, poi mi sono accorta che stavo girando su me stessa.
la settimana scorsa mi sono ritrovata nel quartiere dove sono cresciuta. ho rifatto il percorso da casa al liceo, ho osservato le strade dorian gray; a guardarle superficialmente sembrano uguali, ad osservarle meglio ti trovi davanti il ritratto: è tutto invecchiato, ingrigito, incattivito. e il vecchio negozio di dischi non c’è più.
mi sono rivista in un pomeriggio di milioni di anni fa, entrare in questo bugigattolo: diversamente estroversa com’ero (e come sono), per me entrare nei negozi e parlare con qualcuno (per me, parlare) era uno stress non indifferente. mi ricordo questo signore cinquantenne coi capelli grigi e i baffi, io che lo guardo e penso, ma questo quando mai lo saprà, chi sono, i marlene kuntz?; mi avvicino, gli scandisco, quasi con aria di sfida, il titolo dell’album, senza nemmeno dire di chi è. lui annuisce, sono arrivate pochissime copie, già vendute, l’ho consigliato a tutti i clienti abituali, è musica straordinaria. io che lo fisso con gli occhi a palla: questo sui marlene kuntz ne sa molto più di me. signore cinquantenne coi baffi versus (s.), uno a zero.
poi sono arrivata in cima alla salita, fuori dai cancelli, chiusi, del liceo. e mi sono resa conto di trovarmi davanti alle mie colonne d’ercole. non sono mai andata oltre quel punto; di quell’incrocio io ho sempre fatto solo una strada. non ho mai avuto idea di cosa avvenisse a sinistra, a destra, davanti a quella scuola. ho acceso una sigaretta e ho pensato che trovarmi fuori dai cancelli di un liceo in cui non potevo più entrare, e guardare strade che non avevo idea di dove portassero, non era affatto una sensazione nuova.
tanti anni, e non è cambiato niente.

(tanti anni e son qui ad aspettar primavera, tanti anni ed ancora in pallone – f. guccini)

venerdì 20 febbraio 2009

(manuel agnelli è reale, ma sembra irreale)

(roma)

volevo scrivere di quanto sia bella il paese è reale degli afterhours, ma è bella oltre. oltre la capacità che ho io di spiegare, di come mi sia arrivata addosso come un rimprovero e una speranza; di come li abbia visualizzati che mi dicevano, ok, noi ti abbiamo capita quando ti abbiamo detto che non è niente, non è per sempre, ma adesso basta; di come mi abbiano osservata ferma in tangenziale piangere per una delle tante cazzate fresche splendide dorate avvelenate che inseguo; di come mi abbiano sentita voler pensare solo che fra poco è primavera; di come mi abbiano letta sul mio treno in mezzo al niente.
poi è successo questo.
la gialappa’s commenta il festival su radio2, hanno un inviato nel retropalco dell’ariston. martedì sera parlano con manuel agnelli, della probabile eliminazione, dei fan che si sono lamentati per la partecipazione a sanremo; lui è tranquillo, gentile, pacato, paziente. mercoledì sera non è all’ariston ma i gialappi lo cercano e lui va in teatro apposta per chiacchierare con loro, gli chiedono se può fare qualche nota della canzone, lui spiega che non ha gli strumenti dietro ma promette che giovedì, dopo l’esibizione per il televoto, la canterà al microfono dell’inviato. giovedì gli afterhours salgono sul palco all’una (in effetti è già venerdì), cantano il paese è reale, sanno benissimo che non verranno votati (salta l’esibizione con cristiano godano di oggi. è tutto molto coerente: avevo pensato, quando mai poteva succedere una cosa del genere, afterhours e cristiano godano sul palco dell’ariston con una canzone di una bellezza incommentabile? mai, appunto). salutano e se ne vanno. nel backstage, l’inviato della gialappa’s ferma manuel agnelli.
all’una passata, sulle scale del retropalco, manuel agnelli prende una chitarra, si infila le cuffie del cialdone, e con molta tranquillità, dopo aver chiesto se erano sicuri che potesse suonarla tutta, quasi a voler dire non vorrei disturbare, con la sua chitarra, canta il paese è reale. tutta, dalla prima all’ultima nota, una versione di una bellezza che va oltre l’essere già oltre da un bel po’. quando finisce ci sono quei frammenti di tempo di silenzio di tutti noi, io che ascolto alla radio, loro in studio, le persone lì accanto, che stiamo trattenendo il respiro e che anche volendo cosa mai potremmo dire. finché ci sblocchiamo di colpo, respiriamo, si sentono gli applausi dal backstage, l’entusiasmo, la gratitudine, l’inviato poi spiegherà che erano tutti lì fermi ad ascoltare nel retropalco, sulle scale, nel passaggio verso l’uscita, anche le guardie, quelli del servizio d’ordine, tutti immobili e in silenzio. i gialappi impazziti di gioia, e lui ringrazia loro.
no, manuel. grazie tu, grazie.

lunedì 16 febbraio 2009

croccantini

(roma)

gatto e io abbiamo punti di vista diversi sui croccantini. il mio è che glieli do e lui li deve mangiare subito, o quantomeno in giornata. il suo è che, no, i croccantini devono restare nella ciotola almeno per qualche giorno per raggiungere un giusto grado di croccantinaggio; nel frattempo lui mangia le altre cose ma i croccantini li lascia a riflettere sulla croccantinosità dell’esistenza.
allora prima mi sono arrabbiata e gli ho detto, ora basta, te li butto e te li metto nuovi. e lui mi ha guardata male. e io gli ho detto, guarda che lo so io cos’è meglio per te, i croccantini non possono mica restare gli anni, nelle ciotole, che poi metti che ti fanno male, ho io la responsabilità della tua salute e del tuo benessere, so io cos’è giusto e cos’è sbagliato e decido io per te.
e lui mi ha guardata dall’alto in basso, con quell’aria sardonica, che io poi una delle cose che non capirò mai è come facciano i gatti a guardare sempre tutti dall’alto in basso, anche se loro stanno a trenta centimetri dal pavimento e io a centosettantasette.
e io l’ho guardato dal basso in alto e ho capito e mi sono vergognata moltissimo, e gli ho lasciato i croccantini lì e sono sgattaiolata nell’altra stanza, pensando, maledetti borg, è colpa loro, sono pure contagiosi.
(non mi avrete mai).

domenica 15 febbraio 2009

13 (e menomale che non siamo anglosassoni)

(roma)

che penso che quando chiudi gli occhi e ti rilassi sei bellissimo.
che non siamo mai d’accordo sui film, a parte quelli in costume e babe maialino coraggioso.
che non ti piace come mi vesto.
che i tuoi capelli sono sempre più belli dei miei e non vale.
che non alziamo mai la voce neanche quando litighiamo.
che nonostante non condividi per niente i miei gusti mi regali casse e lettori mp3 perché la mia musica io la possa sentire meglio.
che mi consideri un’autorità in fatto di libri e non è vero ma mi piace tantissimo.
che a volte sei ancora geloso ma fai finta di no.
che a volte ancora mi chiedo esattamente chi sei.
che ti scordi che giorno è oggi.
che ti preoccupi per me ma tanto sai che alla fine me la cavo.
che parliamo di tutto e tantissimo e adoriamo parlare tra noi, anche se lo sappiamo già su cosa saremo d’accordo e su cosa no e non è importante.
che mi dici di non ridere e io rido lo stesso.
che fai finta di niente quando supero il confine tra sfottò e cattiveria.
che abbiamo preso strade diverse rispetto a quello che eravamo insieme e rispetto a quello che eravamo da soli.
che non ce ne importa niente.
che ci siamo fatti male e bene, soprattutto bene.
che ogni tanto ce l’ho con te.
che ogni tanto ti lamenti che ce l’ho con te.
che ti piace quello che scrivo quando non piace a me e viceversa.
che aspetto di poterti mettere nei ringraziamenti anche se sei l’unica persona per cui non riuscirò a trovare le parole.
che quando non sai bene che dire dici ee eee eh.
oggi sono tredici anni che ee eee eh.

mercoledì 11 febbraio 2009

da dove vengono, dove dovrebbero andare

(roma)

al bastone della pioggia piace tenersi aggiornato. più o meno ogni cinque minuti, che secondo me esagera. non riesco più a staccarlo da internet, ci ha il suo elenco di siti di giornali (italiani e stranieri) e tv (solo straniere) (che secondo me dovrebbe farlo anche coi giornali di leggere solo quelli stranieri ma ancora non si sente pronto) (che è un po’ come quella cosa di andare a vivere all’estero, è la cosa più logica da fare ma ci vuole un po’ a sentirsi pronti) (a proposito, no vabbè lo dico un’altra volta) (dicevo) che consulta ogni giorno in continuazione. secondo me gli fa male.
allora prima mi fa, vogliono legalizzare le chiamate moleste, al che gli dico, non mi pare che il mio ex sia mai stato dichiarato illegale, e lui specifica, dai call center, e io gli dico, non mi pare che il mio ex lavori in un call center, e lui sbuffa. lo so, quando faccio così non mi sopporta mica.
comunque ha ragione la poltrona verde, sono arrivati tardi. qui al quartiere-paese, che non si direbbe ma siamo all’avanguardia, non ci telefonano mica più. ci entrano direttamente nel palazzo. e non sto scherzando. il mese scorso abbiamo battuto tutti i record, che in quattro settimane ci hanno suonato alla porta sei volte per offrirci vantaggiosissime offerte per telefonia fissa, e due volte per convincerci che dio esiste. che secondo me le due cose si dovrebbero escludere a vicenda; allora, o dio esiste e allora nella sua infinita saggezza non può aver creato questi spaccagonadi che ti bussano a casa mentre prepari il gulash per chiederti quanto paghi di canone e se credi nella vita oltre la morte (mah, saranno le nuove frontiere della rateizzazione della bolletta), o il contrario. se esistono sia l’uno sia gli altri, l’uno posso ben capire che si senta in imbarazzo e faccia il vago sulla sua esistenza. che io comunque in questi giorni opachi l’ho difeso strenuamente, sostenendo che se c’è non è stata assolutamente colpa sua anzi secondo me è parecchio nauseato pure lui e io non ve lo vorrei dire ma qui piove di brutto da ben più di quaranta giorni, e si sa che noi a roma ci abbiamo il problema delle fogne e delle buche nell’asfalto esattamente come il problema di palermo è il traffico.
comunque l’albero di natale nano sostiene che mica è vero che siamo all’avanguardia, che una volta era normale che venissero a scocciare la gente porta a porta, il telefono è arrivato dopo. stiamo regredendo, avverte. che di questo passo si presenteranno in calzamaglia e parleranno quell’italiano assurdo delle antologie scolastiche e ci minacceranno di bruciarci tutti sul rogo se non aderiamo alla vantaggiosa offerta di smettere di pensare che tanto ci sarà chi lo farà per noi o se stacchiamo la spina alla tv. non stiamo andando avanti, dice, stiamo tornando indietro.
in effetti mi era venuto un po’ il dubbio, sì.

lunedì 9 febbraio 2009

inspirare, espirare

(ba.bo.)

(Di certo là sopra qualcuno ti ama
ma oggi non è in casa)

Sono successe tante cose negli ultimi mesi.
Sono confusa, stordita, stanca, a tratti incredula.
Ma sono qui. Ed è questa la cosa che mi sembra più assurda in assoluto.
Inspirare, espirare.
Tutto qui.
Finché si può.
Inspirare, espirare.
E poi basta.
E' solo questo il senso.
Inspirare, espirare.

(so run baby run baby run baby
run baby run)

nel grigio

(roma)

quello che mi fa sentire profondamente a disagio, giusto per usare un eufemismo, è che avete tutti delle assolute e radicate certezze. e dico tutti proprio tutti, dall’una e dall’altra parte. e io vi guardo a occhi spalancati, e mi chiedo, forse sono io, io manco di coraggio, di principi, di non so che.
uno dei motivi per cui ritengo indispensabile che ognuno possa scegliere per sé, oltre al fatto che dovrebbe essere un elementare diritto (ma elementare a quanto pare non lo è affatto) il decidere della propria vita, è che io mai e poi mai mi sentirei in grado, e soprattutto in diritto, di scegliere per qualcun altro.
l’unica cosa che mi dà un po’ di sicurezza, in questa vicenda, è che una volontà era stata espressa, e qualcuno si sta battendo affinché venga rispettata. e questo è giusto e doveroso e purtroppo eroico, purtroppo nel senso che eroico non dovrebbe esserlo, dovrebbe essere semplice e normale.
ma io poi tutte queste sicurezze che avete, che la corsa sia davvero finita, da un lato, che invece no, dall’altro, non ce le ho affatto. io non lo so. e non sapendolo, io spero che sia così, che la corsa sia finita e che quella volontà venga rispettata, ma lo spero in silenzio e a occhi chiusi.
e invece voi siete tutti così sicuri, e parlate tutti a voce alta, e guardate tutti a testa alta i vostri nemici, e agitate i vostri cartelli e sapete, voi sapete. voi avete la fede anche quando non ce l’avete, e mi rendo conto che questo è sempre stato il più doloroso dei miei limiti, che io non ho mai avuto la fede nemmeno di non avere una fede, non credo nemmeno di non credere. e come fate, io mi chiedo.
come diamine fate.

venerdì 6 febbraio 2009

pronti, partenza, via

(roma)

il bastone della pioggia, l’albero di natale nano e la poltrona verde mi ascoltano spiegare come negli ultimi tempi io abbia tentato, sempre, anche se spesso con pessimi risultati, di trasformare tutto, soprattutto la rabbia e il dolore, in qualcosa di diverso, se non sorridente almeno ironico, se non accettabile almeno surreale. e di come ora io mi debba arrendere di fronte al fatto che non sempre si può. a volte non si può nemmeno provare.
l’albero di natale nano fa tintinnare debolmente uno dei suoi addobbi e mi chiede se ne sono sicura; se sono sicura di non aver sorriso mai. e ripenso a un’immagine improvvisa che mi ha sfiorata oggi, e la riporto indietro.
nel momento più angosciante, quello in cui saltavo incredula da un sito di notizie all’altro, pensavo che stavano trasformando questa tragedia in una corsa. pensavo che tutto, anni di dolore, solitudine, compassione, la sofferenza di questo dolce bellissimo padre, tutto questo stava diventando uno sprint disperato, chi la amava in una corsia, chi non poteva nell’altra, e tutto fosse ridotto a chi arrivava prima, l’amore e la libertà, o la durezza e la prigionia.
e all’improvviso l’ho immaginata come una bambina, questa ragazza diventata donna adulta senza accorgersene, senza esserci; una bambina che correva giocando in un prato, e correndo vinceva, e rideva, perché era arrivata prima.
allora ce ne stiamo qui, seduti per terra, senza sapere cos’altro succederà domani, se e cosa inventeranno per fermare di nuovo tutto, per quello che sanno a memoria e quello che scordano sempre. e ci accompagna una risata infantile, libera, perché in fondo l’unica cosa che possiamo davvero sperare è che questa corsa sia finita, già tantissimi anni fa.

lunedì 2 febbraio 2009

puye puye puye puye puye puye puye pu

(roma)

qui abbiamo indetto una riunione, gatto, mobili, suppellettili e io, abbiamo analizzato attentamente la situazione, valutato pro e contro, infine ci siamo confessati a vicenda che non c’è niente su cui riflettere perché ci siamo tutti innamorati dal primo istante: noi si tifa andrea in arte giops, per intenderci quello che sembra fuori come una veranda abusiva con vista sul colosseo. in cambio lui dovrebbe dirmi come estirpare dai miei neuroni il ritornello di puye, che dopo averla ascoltata una volta sola si è saldamente fissata nello spazio ultima frontiera che intercorre tra una sinapsi e l’altra e non se ne va. insomma, io è da martedì scorso che vivo con in sottofondo, riecheggiante nella testa (dato lo spazio vuoto c’è un’eco meravigliosa), puye puye puye pu. a parte tutto non mi dona un’espressione particolarmente intelligente, e io già di mio a non sembrare del tutto cretina faccio una certa fatica.
ieri un uomo è entrato in casa mia, si è tuffato in poltrona e ha esclamato metti sul due che c’è novantesimo. io prima l’ho guardato attonita pensando “?”, poi ho rielaborato il tutto e l’ho guardato attonita pensando “!”. ora sto cercando di ricordare se non mi era mai successo, se mi era già successo ma avevo rimosso il ricordo, se mi era già successo ma avevo rimosso il cadavere.
allora, per rappresaglia nei confronti dell’uomo di novantesimo, l’ho costretto ad ascoltare puye puye puye puye. al che lui mi ha fatto sentire una canzone che inizia con papaya papaya papaya. ne ho dedotto che le nuove leve della scena musicale italiana se la giocano su un sapiente mix di p, y e vocali a caso, e ho deciso di scrivere una canzone su popeye popeye. voglio dire, perché loro sì e io no?
poi stanotte ho sognato la società segreta che avevamo fondato io e quattro amiche al liceo. di loro, ora due vivono all’estero, una non so proprio che fine abbia fatto, una è morta di una di quelle malattie che magari un giorno, da qualche parte, la ricerca sulle staminali curerà (ho tolto una tirata polemica di mezza pagina, qui, su leggi e rispetto e vita e quando vi pare a voi. perché certa rabbia non porta a niente, si solidifica in un blocco a forma di lapide alla bocca dello stomaco e basta. e prima o poi troverò qualcosa con cui sostituirla, che non sia la stanchezza). comunque nel sogno le andavo a trovare in una base militare, perché si erano tutte arruolate nell’esercito, e stavamo sedute in cerchio a parlare e ricordare, e davanti a me c’era l’amica che è morta, che era morta anche nel sogno, solo che io la vedevo seduta lì, immobile, che fissava il vuoto. allora a un certo punto ho detto alle altre, scusate, ma io mi sa che non sto bene, che vedo lei, e loro mi hanno risposto, non preoccuparti, è normale, la vediamo tutte, la vediamo sempre.
e poi mi sono svegliata e sono andata ad ascoltarmi puye. puye puye puye puye puye puye puye pu.