domenica 21 ottobre 2007

sono inquieta, direbbe qualcuno

(roma)

è da un po’ di tempo che faccio fatica a scrivere in prima persona. e non credo sia un buon segno.

parli in seconda persona come se ti osservassi dall’esterno, come se cercassi di fare da filtro tra te, e il mondo. o quella parte di mondo a cui serve un filtro, perché non ti accetta così come sei. perché sei destabilizzante, al punto che ti minaccia di smettere di parlarti. e questo destabilizza te. e ti ritrovi in un circolo vizioso che ha come centro il fatto che tu non vai bene. o agli altri, o a te stessa, ma comunque non vai bene. né come sei, né filtrata; né destabilizzante, né destabilizzata. e alla fine dei giochi, la voglia di parlarti passa a te.

per dire. per cui smetto di parlarmi, che tanto oggi posso al massimo darmi della cretina, e parlo con te.

sono cinque anni che ti leggo, pennuta, e osservo ribollire tutto quello che spazzi via sotto il tappeto. mi chiedo quando sarà il grande botto, se mai ci sarà. mi hanno insegnato che le persone scelgono sempre, per quanto inconsapevolmente, il male minore. ma non mi tornano i conti; perché, se poi alla fine in tanti fanno boom, vuol dire che qualcosa non quadra.
poi, gli anziani, accettare la realtà, i tarli, il pensiero circolare. accettare la realtà, che significa? una cosa del tipo, non capisco ma mi adeguo? va accettata per forza, questa realtà? perché? per stare bene? per stare meglio? perché così non si perde più tempo ad accettare se stessi? è come il gioco delle parole ripetute troppe volte, che alla fine perdono senso. non ha senso, la frase accettare la realtà. facci caso, spenné, continua a ripetertela: è solo rumore.

e poi, capiamoci. o non sei capace di amori impossibili, o ti è successo due volte. o al limite facciamo la media e decidiamo che ti è successo una volta. io direi che ti è successo perché lo descrivi proprio bene, eh. il dolore fisico. io non avrei usato le immagini del palo nello stomaco o della lama sulla testa; ti avrei parlato di guglie e lame e coperte, e mancanza di respiro e graffiare il cuscino con le unghie e morire, ma stiamo lì. dolore fisico. è un fatto reale, che ti piaccia o no.
hai deciso, tu, che reale è solo l’ingegner cane con cui dividi il ripostiglio in cui lavori; reali sono il traffico e lo smog e le multe e sirio; e gli amori impossibili non sono realtà, e il ronzio di sottofondo che ti senti dentro va eliminato perché è fastidioso, perché nella realtà non ci deve essere. poi, parli di accettarla, questa realtà, ma nemmeno sai bene cosa ci deve stare dentro e cosa no, e ti contraddici perché ti stai imponendo cose che non hai neanche ben focalizzato; perché questa realtà che va accettata e ubbidita, alla fine, non esiste.

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